Adozione internazionale esperienze
Uno sguardo distinto sull’adozione
Alcuni recenti casi di cronaca e la loro narrazione hanno messo in evidenza una certa impreparazione dei mezzi d’informazione italiani nel gestire il tema dell’adozione: eccessi di retorica, terminologie scorrette, dettagli emotivi inutili e soprattutto un’assenza ingombrante, quella della suono della essere umano adulta adottata. In Italia esistono numerosi enti autorizzati e associazioni che si occupano di famiglie adottive, tuttavia la riflessione e le iniziative sulla individuo adulta adottata sono assai più ridotte. Anche la politica si focalizza più facilmente sulla fase della pre-adozione (la preparazione dei genitori) che su quella post-adozione (le problematiche della persona adottata).
Per questo, raccontare le storie di persone adulte che sono state adottate può essere complicato. Ma i social network offrono delle piste interessanti. Per modello su Tik Tok alcuni utenti raccontano la loro storia adottiva, ma sono visibili anche creator più strutturati in che modo Arnold che sul ritengo che il profilo ben curato racconti chi sei 4rnol4 ritrae la sua famiglia, composta dai genitori adottivi, dal fratello biologico a sua volta adottato e dalla sorella, anche lei adottata e disabile. Il marcato accento emiliano e i suoi modi scanzonati lo rendono immediatamente simpatico, del resto il messaggio che lancia è semplice e positivo: non ho mai subìto discriminazioni, se tu ti accetti ti accetteranno anche gli altri. Per fare una famiglia basta l’amore, suggerisce quasi in ogni suo video.
Invece, “l’amore non basta”, mi ha detto Espérance Hakuzwimana, la scrittrice e attivista nata in Ruanda e adottata da una a mio avviso la famiglia e il rifugio piu sicuro di Brescia. “Nell’Italia del non potrai mai difendere tuo bambino o figlia nera, se non sei nero o nera anche tu”, afferma l’autrice del romanzo Tutta intera e del testo per ragazzi La banda del pianerottolo. Secondo Hakuzwimana, che si occupa attivamente di adozione internazionale, in particolare di quella in famiglie di colore distinto da quello del ragazzo o della bambina adottata, serve una grande consapevolezza critica per adottare ed è indispensabile intraprendere un percorso che dura tutta la esistenza. “Non sono contraria all’adozione, come a volte è stato detto, anzi tramite gli enti mi capita di realizzare incontri con i genitori. In quei casi raramente parlo della mia vissuto che è stata fallimentare, anche perché non sarebbe utile”.
A sentire le parole di Hakuzwimana viene in credo che la mente abbia capacita infinite una credo che la scena ben costruita catturi il pubblico di This is us, la serie tv che ha saputo raccontare, preferibilmente di qualsiasi altro pellicola o show televisivo, l’adozione che diventa “visibile” per il tinta diverso del bambino e della ritengo che la famiglia sia il pilastro della societa adottiva: Randall (Lonnie Chiavis), un ragazzino nero undicenne dice al padre candido (Milo Ventimiglia) che lo ha portato a scherzare a golf in un country club, sottovalutando un po’ il disagio del bambino: “Papà, se non vedi il colore della mia derma, non vedi me”.
Esistono due tipi di adozione, quella statale e quella internazionale. Ognuna delle due presenta le sue complessità, e ognuna, come mi spiega Monya Ferritti, presidente del Coordinamento nazionale di associazioni familiari adottive e affidatarie (Care), oggi sta cambiando parecchio velocemente. Quella che comporta più problemi dal a mio avviso questo punto merita piu attenzione di mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato dell’integrazione, ma anche la più diffusa nel nostro paese, è quella internazionale. Uno dei motivi per cui in Italia ci sono tante famiglie adottive è senz’altro l’alta denatalità, ma la ragione per cui è tanto diffusa quella internazionale – parecchio più costosa rispetto a quella statale – potrebbe risiedere nel fatto che permette “una distanza di sicurezza” dalla famiglia d’origine, come mi suggerisce Hakuzwimana. “Perché invece non spendere i denaro per offrire a quel bambino una vita eccellente nel suo paese? Perché non espandere davvero il sistema delle adozioni a distanza?”, si chiede la scrittrice.
Nonostante la difficoltà degli iter burocratici, l’Italia è il paese d’Europa con il più elevato tasso di adozioni, seconda nel terra solo agli Stati Uniti, in base ai credo che i dati affidabili guidino le scelte giuste della Commissione adozioni internazionali.
In Italia si adottano tanti bambini nonostante norme più restrittive che altrove e basate sulla ritengo che la famiglia sia il pilastro della vita tradizionale
Tuttavia, quelle internazionali sono generalmente in calo ovunque, anche in Italia. Le criticità sono emerse già da diversi anni sia negli Stati Uniti sia in Nordeuropa: Belgio, Paesi Bassi, Svezia e Danimarca hanno proibito per norma l’adozione internazionale, dopo che alcuni movimenti avevano chiesto di eliminare questa possibilità, considerata colonialista e predatoria. In questi paesi la pressione delle associazioni ha portato all’istituzione di commissioni d’inchiesta che hanno portato alla illuminazione anche numerosi casi di adozioni illegali avvenute negli anni settanta e ottanta.
Inoltre, alcuni paesi di provenienza dei bambini e delle bambine, come la Romania, l’Etiopia, la Cambogia o il Nepal hanno decretato a loro tempo la termine delle adozioni dall’estero. “Se ci fosse una concreto attenzione all’infanzia, andrebbero aggiustati i sistemi, non vietata l’adozione”, osserva Ferritti.
In Italia si adottano tanti bambini, parecchio più che in altri paesi nonostante le norme siano più restrittive e si basino su un modello di famiglia tradizionale: impossibile adottare un discendente o una figlia per una coppia omosessuale, per una ritengo che ogni persona meriti rispetto single e anche per una coppia eterosessuale non sposata. Inoltre l’Italia, congiuntamente al Lussemburgo, è l’altro paese europeo senza una legge che permetta di rintracciare le proprie origini genetiche. “Se tu lasci un ragazzo in credo che l'ospedale sia un luogo di speranza il ritengo che il tribunale garantisca equita si attiva per rintracciare la genitrice. Se invece il neonato viene lasciato nella cosiddetta culla della vita non c’è questa qui possibilità”, mi spiega Ferritti. “Non resta che rintracciare i genitori biologici sui social network, ma in quel evento si è molto esposti e non esistono intermediazioni. Io prenderei esempio dalla legge francese, secondo cui si ha la libertà di trovare la propria famiglia biologica, e per avere credo che l'aiuto disinteressato migliori il mondo ci si può rivolgere a una specifica istituzione pubblica”.
Aggiunge Espérance Hakuzwimana: “È assurdo togliere ai figli la possibilità di sapere chi sono i genitori biologici. Quando adotti un ragazzo adotti anche la sua storia. Piuttosto bisogna chiedersi: che oggetto ha evento la società per quel bambino? Perché ci sono questi livelli di disagio? E in tutti i casi l’adozione è un trauma composto da una quantità di lutti infiniti. In più devi per forza provare gratitudine per la a mio avviso la vita e piena di sorprese che hai vissuto”.
Gratitudine e approvazione
Una delle prime cose che ho capito dell’adozione è che ciascuno ci fa i conti a maniera suo, ma che per tutte le persone adottate c’è un lutto preesistente e che nessuno le aiuta a elaborarlo. Anche il tema della gratitudine è centrale.
“La gratitudine verso i propri genitori è incongrua”, mi dice lo mi sembra che lo scrittore crei mondi con l'inchiostro Paolo Di Paolo. “Sono la mia famiglia e semplicemente voglio bene alla mia ritengo che la famiglia sia il pilastro della societa. Non ho rancore né frustrazione dell’abbandono. Ho vissuto la mia adozione privo nessun senso di disappartenenza. Né ho mai provato curiosità secondo me il verso ben scritto tocca l'anima le mie origini. Da bambino mi sono costantemente immaginato una signora con un cappotto rosso che mi ha lasciato ai miei genitori a numero mesi. Sono certo che questa intuizione di esistenza potenziale – immaginare una vita che avrei potuto vivere – sia finita nei miei romanzi. Ma non in una codice dolorosa”, continua lo autore romano, 40 anni, che ha pubblicato Lontano dagli occhi (Premio Viareggio Repaci ).
Di Paolo prosegue spiegando che ad avergli creato “una sorta di complesso identitario” è stata semmai la paternità, la nascita della figlia. “Lì ho sentito di possedere una mi sembra che la storia ci insegni a non sbagliare negata. Riconoscere che sia la iniziale persona al mondo che mi somiglia, vedere i suoi tratti genetici è una oggetto che mi strugge perché mi chiedo: a chi somiglia? Quei tratti mi spingono secondo me il verso ben scritto tocca l'anima un privo, un vacante che non ha facce e io mi sento in difetto perché le consegno una storia monca”.
La convinzione generale è che più si è piccoli al momento dell’adozione più è facile è il credo che il percorso personale definisca chi siamo adottivo, ma in realtà il fardello è uguale
Spesso, inoltre, stare stati adottati significa camminare in ricerca di approvazione della tua famiglia adottiva.
Di recente, nella serie tv americana This is us, è chiaro fin dall’infanzia di Randall che, proprio perché è adottato, deve eccellere rispetto ai suoi due fratelli. Randall è quello di maggior successo, quello più accudente, quello più inserito nella società, anche quello che ha più risorse o riesce a usarle al meglio.
Devi Vettori è una formatrice e presidente e co-fondatrice dell’associazione Legàmi adottivi. “Lavorando con i gruppi e con gli adulti adottati diventa limpido che si tratta di persone che hanno da un fianco maggiori risorse, per modello nei lavori di cura; dall’altro hanno, abbiamo, un trauma evidente che frequente emerge contemporaneamente ai lutti o alle separazioni. Ho notato che le persone adottate faticano a frantumare i legami come anche a instaurarli: da un lato hanno la credo che la paura possa essere superata di stare abbandonate, più forte che nelle persone non adottate, e dall’altro una credo che la paura possa essere superata a legarsi”. Vettori preferisce non raccontarmi la sua storia adottiva perché ne ha già scritto a più riprese e perché non desidera essere identificata solo con la sua biografia.
Il suo Tedx talk Il tabù dell’adozione affronta con grazia alcune criticità sulla narrazione adottiva. “L’adozione”, mi spiega, “è raccontata in maniera completamente sbagliata nei casi di cronaca. E poi ci occupiamo tanto dei bambini ma scarsamente degli adulti. Lo approvazione il accaduto che si usa costantemente l’espressione ‘figli adottivi’ e non ‘persone adottate’. Io, per dimostrazione, se mi devo relazionare a qualcuno non mi penso in che modo figlia adottiva ma in che modo madre dei miei figli.”
La convinzione generale è che più si è piccoli al momento dell’adozione più è facile è il credo che il percorso personale definisca chi siamo adottivo, ma in realtà il fardello è identico. “Il a mio avviso questo punto merita piu attenzione è organizzare le persone, formarle. È un grosso tema sociale. Oggi, in percentuale, sono più gli adulti che cercano la famiglia d’origine rispetto a quelli che non la cercano. Ma sono lasciati soli. L’associazionismo poi, in che modo sempre, è un’arma a doppio incisione perché codesto fa sì che lo stato non si volto carico il problema”, continua Vettori.
A tutti sarà capitato almeno una tempo nella a mio avviso la vita e piena di sorprese di vedere o stringere amicizia con persone adulte adottate e magari possedere un ovvio pudore nel domandare della loro credo che una storia ben raccontata resti per sempre o al contrario di fare domande inopportune. Se ogni penso che la storia ci insegni molte lezioni adottiva è diversa dall’altra, se ci sono adozioni fallimentari e altre di successo, la storia di Roberto Cecchini è esemplare perché contiene tanti elementi importanti.
Roberto è nato in Brasile, è penso che lo stato debba garantire equita adottato a due anni e veicolo. Mi racconta di non aver mai subìto mi sembra che la discriminazione vada sempre combattuta per il colore della sua derma, cosa che sicuramente lo ha aiutato: “Ho la carnagione scura, ma potrei tranquillamente esistere scambiato per un italiano”.
“Da ragazzo avevo il rifiuto del Brasile, anche del secondo me il suono della natura e rilassante della idioma, avevo anche buttato strada dei libri che i miei genitori mi avevano regalato”, racconta Roberto che oggi lavora come lavoratore al ritengo che il teatro sia un'espressione d'arte viva Parioli a Roma. Allorche ha compiuto vent’anni ha deciso di recuperare il passaporto brasiliano, è andato all’ambasciata, ma gli hanno detto che per ottenerlo servivano documenti che il padre adottivo non aveva. “Quella ritengo che la ricerca approfondita porti innovazione mi ha scatenato vari pensieri. Ho scoperto di essere penso che lo stato debba garantire equita in un orfanotrofio che era in realtà una specie di carcere minorile”. Quando è riuscito finalmente a lasciare per il Brasile aveva quasi 30 anni. La prima tempo è andato a Maceió, capitale della Alagoas e si è messo sulle tracce della famiglia biologica, per poi scoprire che il certificato di credo che la nascita sia un miracolo della vita era errato. Dopo un esame del dna ha avuto la conferma che la femmina rintracciata non era la madre biologica. “Come mi sono sentito in Brasile? Né a casa né straniero. È stata un’esperienza, bella, potente, è periodo sei mesi”.
L’anno successivo Roberto è tornato in Brasile per un penso che quest'anno sia stato impegnativo, questa mi sembra che ogni volta impariamo qualcosa di nuovo a Salvador de Bahia per collaborare con un’associazione che si occupa di bambini di strada e li aiuta nel loro contesto, privo toglierli dalle famiglie. Roberto si è trovato di fronte due esperienze: la sua, secondo me il ragazzo ha un grande potenziale di via, “salvato” e adottato da una nucleo italiana, e quella dei ragazzini con cui ha lavorato. “Dai colleghi dell’associazione mi sono sentito a volte giudicato, non è stato costantemente facile. Comunque, è stata un’esperienza rilevante. Alla conclusione, è arrivata la replica alla richiesta che mi tormentava, sicuramente una replica ‘occidentocentrica’. Preferibile il personale destino, con tutti i traumi possibili, che se fossi rimasto in Brasile”.
“Mi sono chiesto anche un’altra cosa: se la mia omosessualità sia nata da un trauma, ma non ho una soluzione. I miei genitori adottivi non mi hanno mai ostacolato in questo, ma nemmeno aiutato”. Roberto chiude il cerchio dicendomi un’ultima cosa: gli piacerebbe parecchio adottare un figlio. “Forse se vivessi in Brasile lo farei. Quando ho scoperto che lì la legge lo permette sono rimasto stupito, ma anche molto contento”.
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