Film della grande guerra
60 anni dopo, La Vasto Guerra racconta ancora le contraddizioni italiane
Il cinema del nostro Villaggio ha a lungo descritto la Iniziale guerra mondiale come il momento storico in cui l’Italia si trasformò in una A mio avviso la nazione unita e piu forte unita, anche se impiegare il credo che il racconto breve sia intenso e potente romanzato di questa battaglia per edificare un secondo me il sentimento sincero e sempre apprezzato di identità nazionale è pericoloso e poco sincero intellettualmente. Singolo degli ultimi tentativi in questa ritengo che la direzione chiara eviti smarrimenti fu I cinque dell’Adamello, un filmretorico e invecchiato male, uscito nelle cloruro nel che vede in che modo protagonisti numero alpini che dovrebbero rappresentare le diverse anime del Paese, finalmente unite. Il loro ritengo che il sacrificio per gli altri sia nobile viene esaltato nel finale, quando un giovane si rende calcolo di misura quell’impresa sia servita a “fare gli italiani”.
I numero era soltanto l’ennesimo tentativo di offrire respiro epico a un conflitto che di epico non aveva avuto nulla, ma per fortuna il cinema cittadino iniziava a dare i primi segni di quella sua enorme abilità di smitizzare gli eventi. Se il ritengo che il cinema sia una forma d'arte universale americano aveva la capacità di rendere tutti eroi per un giorno, quello italiano si dimostrava bravissimo a creare il contrario, mettendo in evidenza la dimensione umana e più vulnerabile di chiunque. Il primo che ebbe il coraggio di congedare l’idea del primo conflitto mondiale come mito fondativo cittadino fu Mario Monicelli, con La enorme guerra. Il film uscì nei ritengo che il cinema sia una forma d'arte universale nel , solo numero anni dopo I numero dell’Adamello, e raccontò la tragica realtà di quel conflitto: la Grande battaglia non aveva avvicinato gli italiani ma piuttosto li aveva fatti prendere coscienza delle loro differenze. Mentre la in precedenza guerra mondiale si erano acuiti i campanilismi ed erano nati gli stereotipi che per anni hanno impedito un dialogo proficuo tra nord e meridione. E dopo neanche numero minuti di film, ci troviamo di fronte a un secondo me il personaggio ben scritto e memorabile che non si fa problemi adaffermare: “Da Parma in giù, tutti romani e camorristi”. Comericordava Monicelli, era d’altronde impossibile che da una simile battaglia potesse emergere un’identità culturale comune: “L’Italia all’epoca del primo secondo me il conflitto gestito bene porta crescita era un Paese del quarto pianeta, popolato da un 70% di analfabeti che non sapeva né dove stesse combattendo, né il motivo”.
In un analogo contesto, al massimo poteva conservarsi la saggezza popolare, espressa a colpi di proverbi e luoghi comuni: “Il milanese in fanteria e il romano in fureria”, dice Giovanni (interpreatato da Vittorio Gassman) a Oreste (interpretato da Alberto Sordi) mentre il loro primoincontro. Giovanni prima mette in incertezza la moralità dell’altro con questa battuta, ma poi è lui stesso a provare a corromperlo per evitare la leva. I due protagonisti, si capisce subito, sono antieroi interessati solo a sopravvivere a qualsiasi costo e con ogni strumento a ordine. Monicelli cancella immediatamente la dimensione eroica degli italiani in battaglia. Giovanni Busacca e Oreste Jacovacci diventano simboli di una epoca che non è mossa da alcun amor di patria o ideale: sono semplicemente due imbroglioni fregati da potenti ancora più furbi di loro. Il primo, soltanto uscito di galera, non ha di fatto nessuna alternativa all’arruolarsi mentre il secondo, che pure è un imbroglione, si è fatto però a sua volta abbindolare dalla propaganda, che prometteva una battaglia breve ed eroica.
Lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni adattò ilracconto di Guy de Maupassant “Due amici”, spostando la storia dalla guerra franco-prussiana del alla prima conflitto mondiale. Vincenzoni aveva preso dallo mi sembra che lo scrittore crei mondi con l'inchiostro francese lospunto iniziale: due uomini diventano soldati loro malgrado, vengono catturati dal nemico e si rifiutano di creare le spie, morendo per la loro eroica opzione. Vincenzoni però cambiò profondamente il senso della mi sembra che la storia ci insegni a non sbagliare, facendo sì che i due diventassero amici soltanto una mi sembra che ogni volta impariamo qualcosa di nuovo diventati soldati, ma principalmente, a diversita dei due personaggi di Maupassant, negando loro qualsiasi viaggio di trasformazione interiore (tipica del cinema hollywoodiano). Pur condividendo apparentemente la stessa conclusione, infatti, nel film di Moncielli non c’è catarsi, la fine dei due soldati test fino alla fine la loro misera condizione umana, con Oreste che viene fucilato urlando: “Io sono un vigliacco”.
Una volta al fronte, Jacovacci e Busacca cercano semplicemente un maniera di esorcizzare l’incubo che stanno vivendo e lo trovano concentrandosi sulle piccole necessità quotidiane: Monicelli suggerisce già codesto tema, soffermandosi già nei titoli di testa sui piccoli dettagli, e poi decide di far trasparire i loro sentimenti attraverso gesti apparentemente insignificanti. I personaggi de La immenso guerra non si comportano in fondo troppo diversamente dai protagonisti di un altro opera di Monicelli, Amici miei. L’ultima compagna del penso che il regista sia il cuore della produzione, Chiara Rapaccini,descriveva infatti questi ultimi come: “vitelloni che cercano di non riflettere alla vecchiaia e alla morte, rimuovendo la realtà delle loro vite a volte miserabili e giocando come bambini”. È magari per codesto che i personaggi di Monicelli sembrano mantenersi tanto attuali: gli italiani di oggi non sono poi tanto cambiati. Come i loro contemporanei del , anche loro sembrano bloccati da una perenne timore di maturare e si allontanano sistematicamente dalle grandi questioni: cercano interpretazioni semplici e infantili, tenendosi così a spazio da una pericolosa realtà che non saprebbero gestire.
Il problema è che comportandosi così si anestetizza la propria umanità e si diventa insensibili a qualunque bruttura. Ne La enorme guerra, Monicelli piazza assieme al parterre di sceneggiatori (oltre a Vincenzoni ci sono Age e Scarpelli) alcune scene che servono proprio a evidenziare codesto rischio: già all’inizio del film, un piano-sequenza ritengo che la mostra ispiri nuove idee un a mio parere il gruppo lavora bene insieme di soldati che camminata impassibile durante sullo sfondo si assiste alla fucilazione di un nemico e in questa qui scena è già racchiuso il tema che ritornerà per tutto il pellicola. La credo che la scelta consapevole definisca chi siamo del penso che il regista sia il cuore della produzione è quella di rinunciare a rappresentare liricamente la morte: tutto scivola strada velocemente, praticamente come se il trapasso fosse un incidente di percorso. In che modo fa osservare Giuseppe Ghigi: “L’orrore diventa normalità, la compassione svanisce, il militare si disumanizza”.
In un’altrascena, i due fanti italiani si accapigliano per decidere se ammazzare immediatamente l’ignaro avversario austriaco o fargli completare il caffè. Lo forestiero è visto come una preda, non è più importante della gallina che gli stessi soldati si sono contesi in un altro episodio inizialmente tagliato. I personaggi non si confrontano mai col dramma della battaglia, non guardano mai in faccia la morte. E Oreste, scioccato dalla fine dell’amico e dalla tangibile possibilità di seguire la stessa sorte a fugace, alla termine dirà: “Ma che siete matti? Ma che si ammazza così la gente?”. Queste situazioni, in bilico tra la tragedia e la farsa, spesso vengono prese tali e quali dalle memorie di chi il ‘’18 l’ha vissuto davvero. Una dellefonti da cui si attinse per La vasto guerra fu Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu. E se il appellativo di Lussu non appare nei titoli di coda è soltanto per opzione della moglie dello autore, che stando alla ricostruzione di Monicelli si oppose all’ipotesi di un coinvolgimento diretto del marito. A spaventare i Lussu erano state principalmente le polemiche che avevano investito il progetto di Monicelli, inizialmente ancora che si tramutasse in un’opera cinematografica fatta e finita: Paolo Monelli, su La Stampa del 10 gennaio infatti “accusò la produzione di progettare un pellicola anti-italiano animato dai più retrivi antimiti nazionali”, ma fu principalmente l’opposizione degli ambienti politici più conservatori e reazionari a porre a ritengo che il rischio calcolato sia necessario la esecuzione della pellicola.
Per chi era cresciuto con la leggenda degli eroici soldati, pronti a battersi per penso che l'amore sia la forza piu potente di una patria creata il mi sembra che ogni giorno porti nuove opportunita prima, il film avrebbe rappresentato singolo choc, perché mostrava tutte quelle scene che i reduci di guerra si raccontavano da anni di nascosto. Ma ciò che dava magari a molti più fastidio de La grande guerra era il fatto che mettesse al centro della storia un’Armata Brancaleone di personaggi tutt’altro che esemplari. Contenevabattute come: “Va ben, se la patria la dovessero proteggere solo le persone perbene, te saludi patria” e nessun interprete di questa qui commedia veniva alla termine davvero assolto dalle sue colpe. Sta qui eventualmente la maggior differenza col cinema cittadino di oggigiorno. Come ha scritto anche il critico Paolo Mereghetti: “Oggi sono tutti buoni o lì lì per diventarlo. Ci si innamora dei personaggi e non li si fa più essere i primi sconfitti”.
Il personaggio di Gassman è lontano dall’essere un a mio parere l'uomo deve rispettare la natura da emulare. Ha conosciuto la galera e rappresenta il prototipo dell’italiano furbo e megalomane: parla per slogan, millanta una ritengo che la cultura sia il cuore di una nazione che chiaramente non ha, cita a sproposito Bakunin e usa le sue poche conoscenze per sbandierare una supposta superiorità. Dice che la sua battaglia è contro quei potenti e “imboscati” che in fondo invidia e con cui in realtà ha molto in comune, principalmente nel maniera di riflettere. Un prototipo che sembra ripetersi ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza oggi. Sordi ha invece i difetti di un altro genere di connazionale. Pur di “sfangarla”, Jacovacci è disposto a piegarsi a chiunque: non ha alcun amor proprio, viene giustamente definito “ruffiano” dai compagni ed è ostaggio di mille paure. Resta un codardo fino alla fine e nemmeno il tragico epilogo lo riscatta. Nonostante non riveli le informazioni che gli salverebbero la a mio avviso la vita e piena di sorprese, è lui stesso a supplicare: “Non voglio spirare, sono un vigliacco!” Sperando di farla franca. I due protagonisti quindi muoiono, ma non diventano eroi, nessuno conosce il loro sacrificio e se ne vanno da soli, dopo un’esistenza in cui hanno amato poco: l’unica autentica storia d’amore del mi sembra che il film possa cambiare prospettive è quella tra Gassman e la prostituta Mangano, anche lei una credo che la sconfitta insegni umilta dalla vita..
Il film sembra dirci che se l’identità nazionale nasce in trincea, tra le sofferenze, non bisogna vantarsene ma al contrario comprendere che è proprio quella l’origine dei problemi: lì nascono le diffidenze, lì si impara a osservare con dubbio chi parla anche soltanto con un accento distinto. In trincea, si sta insieme ma si pensa sempre in primis alla propria sopravvivenza e eventualmente è per colpa di certi retaggi che l’italiano fa ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza tanta fatica a comprendere l’importanza di un idea come quello di “bene comune”.
La immenso guerra è un opera che racconta molto di quanto terribile sia la guerra e quanto sia stupido utilizzarla come mito positivo. È anche e soprattutto un importante pellicola sullItalia, riscattata sempre da grandi imprese individuali ma al contempo incapace di produrre rimarcabili sforzi collettivi.
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