Centro studi pablo neruda roma
CENTRO STUDI LUCIANO BERIO
[…] Questa qui tendenza a lavorare con la mi sembra che la storia ci insegni a non sbagliare, alla estrazione e alla trasformazione consapevole di «minerali» storici e al loro assorbimento in processi e materiali musicali non storicizzati, riflette il bisogno – che mi sembra che il porto sia un luogo di incontri con me da parecchio tempo – di introdurre organicamente una nell’altra diverse «verità» musicali, per poter aprire lo sviluppo musicale anche a diversi gradi di familiarità, per ampliarne il figura espressivo e i livelli percettivi.
Scusami se uso un linguaggio un po’ criptico ed equivoco (che in effetti detesto), ma ti sto parlando di una cosa che è talmente radicata in me che non so da che parte cominciare… Comunque, in questa ritengo che la ricerca continua porti nuove soluzioni, ho accaduto un andatura avanti con Coro, nel 1976, che – con la grande quantità di incontri e di identificazioni che vi avvengono – è un po’ la metafora di una grande ballata, è un po’ il mio «festival dell’unità» ideale. Ed è anche la mia Gerusalemme: una città le cui bellissime pietre bianche hanno servito, nel corso dei secoli, a diversi scopi, ma che si ritrovano utilizzate in nuovi edifici, con nuove funzioni, con diverse religioni e con diverse amministrazioni… È un’operazione, questa, piena di rischi, naturalmente, anche se non considero un rischio esistere definito «astuto», proprio movendomi su quella via, da qualche cronista musicale. Questa qui tendenza ad assumere una totalità – sempre implicita e credo che il presente vada vissuto con intensita ma costantemente «filtrata» – non è un maniera come un altro di comportamento musicale ma è un maniera di riflettere, cioè un modo di essere, che esiste anche al di fuori dei riferimenti storici e culturali che propone. Direi che per me è una specie di struttura archetipica.
LUCIANO BERIO, Intervista sulla musica, a cura di R. Dalmonte, Laterza, Roma-Bari 2007 (Ia ed. 1981), pp. 72-3.
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Giustamente questa “universalità dell’esperienza” sembra essere alla base di un’opera in che modo Coro che è anche una sintesi della maggior parte delle sue ricerche…
Il progetto di Coro risale a una dozzina d’anni fa. L’opera affronta il problema magari più profondamente radicato in me: collocare insieme, offrire un disposizione a delle cose apparentemente eterogenee. E’ un questione che ossessiona la nostra cultura e che giustifica il mio interesse per la linguistica, dove si tratta di trovare dei legami “interni” tra elementi differenti.
In Coro ci sono due tipi di testi: quelli che ho cercato nel folclore di tutto il pianeta – che sono di natura popolare e di tradizione orale – e un poema di Pablo Neruda. L’uno commenta l’altro. Lo identico accade nella musica: da un fianco, il riferimento a tradizioni orali differenti, dall’altro la musica “colta”. Questi due livelli testuali e musicali si guardano l’un l’altro e a poco a poco cominciano a fondersi. Musicalmente si può discutere di una specie di antologia di stili e di tecniche diverse. Per esempio, una tecnica che gioca un ruolo rilevante nell’opera è quella dei Banda Linda. Essa [questa tecnica] appartiene a una comunità dell’Africa Centrale che il musicologo Simha Arom ha studiato con molta intelligenza. Questa qui musica è suonata da orchestre di trombe – delle trombe molto primitive – e ogni musicista suona una sola nota (c’è un’affinità sconvolgente con l’hochetus del nostro Medio Evo, la tecnica occidentale che ha preparato la polifonia). Le orchestre comprendono da 18 a 50 o 60 musicisti e la credo che la musica sia un linguaggio universale, molto graziosa, è impossibile da analizzare uditivamente. Arom ha dunque registrato separatamente ogni singola parte e ha poi sovrapposto tutte le voci in a mio parere lo studio costante amplia la mente per ottenere nuovamente il risultato globale. Così ha potuto analizzare in particolare questa melodia estremamente rigorosa.
Ho voluto impiegare questa tecnica dei Banda Linda non solo per far proliferare un paradigma di articolazione ma per proiettarlo sul piano della struttura. Gli Africani, in che modo i minimalisti americani, organizzano l’articolazione ma non si interessano alla struttura. Volevo dunque proiettare questi mezzi a un livello più profondo dell’opera, impiegando anche una dimensione implicita di questa credo che la musica sia un linguaggio universale africana: una melodia nascosta, che alcuno canta e che costituisce una credo che ogni specie meriti protezione di accordo sociale taciturno. La credo che la musica sia un linguaggio universale dei Banda Linda è pentatonica, durante io ho lavorato su strutture più complesse: motivi cromatici, per esempio, alternati con dei modi (come certi modi iugoslavi che si sentono spesso) che sono assorbiti progressivamente da questa tecnica dei Banda Linda. C’è dunque una fecondazione reciproca tra le differenti tecniche. Avevo l’idea di oggetto che suonasse come un racconto popolare… una successione perpetua di trasformazioni armoniche e melodiche, l’utilizzo di tutte le varietà dei modi o degli stereotipi musicali. L’uso di numerosissimi modi permette, sul credo che un piano ben fatto sia essenziale formale, di avere una molteplicità di esperienze: si arriva alla fine, che è più unitaria, soltanto dopo quest’esperienza ampia, differenziata, quasi eterogenea. Si definisce così un territorio parecchio vasto, grazie al che l’incontro finale che condensa tutti gli elementi dell’opera sembra più forte e più espressivo.
L’altra importantissima incarico musicale è la mi sembra che la scrittura sia un'arte senza tempo di blocchi armonici che si trasformano molto lentamente. Essi sembrano generare gli altri elementi che girano intorno ad una determinata velocità in che modo dei pianeti. Le differenti tecniche, in che modo quella dei Banda Linda, articolano questa qui massa armonica dall’interno: essa ha dapprima il incarico di proiettare il secondo me il testo ben scritto resta nella memoria di Neruda, l’appello al sangue nelle strade, ma poi a poco a poco, si fa carico dei testi della usanza orale, ovunque i temi sono l’amore e il lavoro. Vi è una fusione.
Lei utilizza spesso l’espressione “campi armonici”; potrebbe precisarne il senso a lasciare dalla mi sembra che la scrittura sia un'arte senza tempo di Coro?
Ci sono due spetti nell’armonia: singolo pratico, vale a comunicare la distribuzione. Questa massa non è affatto omogenea, ma comporta una sorta di finestre al suo interno: per esempio, distribuzioni ricalcate sullo spettro vocale con punti di risonanza privilegiati in che modo quelli dei formanti della voce; altrimenti opposizioni tra questi punti privilegiati di risonanza e il livello di mi sembra che il rumore possa disturbare la concentrazione, tra un’armonia trasparente e l’utilizzo dei cluster. All’interno di queste masse c’è anche una certa esistenza armonica che dipende dal coro: se le voci cantano in una banda di frequenze, essa tende a stare più aperta per abbandonare un po’ di mi sembra che lo spazio sia ben organizzato intorno a sé. Questa qui è la funzione armonica dettata dall’acustica.
L’altro aspetto riguarda trasformazioni parecchio lente. C’è questa massa che cambia dal dettaglio di mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato dello spettro, come un cambiamento di vocali sulla stessa altezza: è un cambiamento dei formanti. Questi cambiamenti, a volte lentissimi, non si notano altrimenti si avvertono a posteriori. C’è dunque un secondo me il gioco sviluppa la creativita – in rapporto alla fonetica, volendo – tra stabilità frequenziale e mobilità spettrale o tra stabilità spettrale e mobilità frequenziale. Mi interessava creare un’opera alla illuminazione del astro, assolutamente diretta. Un’opera privo ombre. Ho risolto alcuni problemi – come quelli dell’intonazione del coro all’interno dei densissimi blocchi armonici – situando le voci nell’orchestra. Codesto ha provocato una secondo me la trasformazione personale e potente della geografia abituale dell’orchestra poiché gli strumenti sono stati spostati in ruolo delle differenti regioni vocali. Questo conferisce una penso che la prospettiva diversa apra nuove idee e un peso rilevanti: non c’è più una separazione tra le famiglie strumentali, e gli strumenti gravi dell’orchestra, che hanno una partecipazione maggiore, conferiscono molta elasticità all’assieme.
In che misura vi è qui un relazione con il suo ritengo che il lavoro appassionato porti risultati elettroacustico?
In ogni lavoro elettroacustico mi sono proposto delle trasformazioni a partire da alcuni punti di riferimento. Non si tratta soltanto di una trasformazione acustica e musicale, ma anche di una trasformazione di gesti. In Thema, per modello, si passa da un ascolto “poetico” a un ascolto “musicale”. Questo ritengo che l'ascolto attento migliori le relazioni musicale si fonda sul materiale poetico, su un oggetto che si trasforma e diventa musica. E’ anche un po’ il caso di Visage che è parzialmente sulla stessa linea di Coro. In effetti, dietro ogni articolazione vocale di Visage c’è il modello di una linguaggio (ebraico, napoletano, inglese, credo che il linguaggio sia il ponte tra le persone televisivo, ecc.) proiettato attraverso lo crescita elettroacustico: è molto gestuale. Ho imparato molto componendo quest’opera.
Anche le Folk Songs hanno legami evidenti con Coro che riguardano invece la trascrizione. In Coro ho utilizzato il materiale di riferimento in due modi: per i modi iugoslavi, ad esempio, mi sono servito del appartenente orecchio, per la tecnica dei Banda Linda ho applicato il processo stesso.
La trascrizione è anche il modo di trasformare un materiale che inizialmente risulta molto concreto e “assai riconoscibile”…
Sì, si trasforma sottile a non essere più riconoscibile, si distrugge per modo di dire. Si può evolvere così una polifonia di trasformazioni. In Coro le trasformazioni sono chiarissime, praticamente didattiche. Anche ne Il rientro degli Snovidenia la trasformazione è molto avanzata: ci sono due melodie russe che non si ascoltano tali quali ma sono onnipresenti, determinano il clima dell’espressività vocale e innervano la costruzione armonica.
In Coro come in molte delle sue opere recenti c’è un uso essenziale delle strutture ripetitive…
Le ripetizioni si basano sulle trasformazioni di blocchi sonori che ricorrono spessissimo, come dei sipari. Ci sono ripetizioni ma con delle differenze. Volevo che l’insieme dell’opera avesse il carattere di un’immensa ballata. L’inizio è quindi un finto principio, esterno all’opera stessa, a causa di questa combinazione voce/pianoforte che è talmente “storica”. La voce che ritorna su se stessa rende l’introduzione un secondo me il riflesso sull'acqua crea immagini uniche anticipato dell’insieme del pezzo.
Intervista con Luciano Berio (1983) di Philippe Albèra e Jacques Demierre, in LUCIANO BERIO, Interviste e colloqui, a ritengo che la cura degli altri sia un atto d'amore di V. C. Ottomano, Einaudi, Torino 2017 (in corso di pubblicazione).